Come il digital advertising sta anestetizzando la comunicazione (e cosa possiamo farci)
Negli ultimi anni, le grandi piattaforme di advertising — da Meta a Google, passando per TikTok e Amazon — hanno avviato una trasformazione silenziosa, ma profonda. La creatività sta diventando standardizzata. I formati si somigliano tutti. I visual parlano lo stesso linguaggio. Le parole si adattano alle esigenze dell’algoritmo, non a quelle dell’immaginazione.
Il risultato è un ecosistema pubblicitario sempre più uniforme, dove i brand si confondono tra loro e dove il dato ha preso il posto dell’intuizione. È un problema tecnico? Anche. Ma prima di tutto è un problema culturale.
Perché è crunch: stiamo perdendo la comunicazione come forma d’arte. Inseguendo l’efficienza, rischiamo di cancellare ciò che rende un messaggio memorabile, la sua umanità, la sua imprevedibilità e la sua capacità di sorprendere. Questo articolo è un invito a ripensare il rapporto tra creatività e tecnologia, e a immaginare un futuro in cui l’intelligenza umana abbia ancora un ruolo centrale nel raccontare il mondo.

Quando tutto inizia a somigliarsi
Quando tutto inizia a somigliarsi
Scrolla un feed qualsiasi: potresti non riuscire a distinguere un brand di moda da uno di food delivery. Carousel dopo carousel, il linguaggio visivo si appiattisce. Lo storytelling evapora. La voce del brand si spegne, assorbita da logiche di performance che premiano la ripetizione rispetto alla rottura.
Questo processo non è solo responsabilità delle piattaforme. È favorito anche da strumenti di automazione, template creativi suggeriti dagli algoritmi, campagne adattive che scelgono “cosa funziona” in tempo reale. Ma se tutti usano le stesse regole, chi ha ancora il coraggio di fare qualcosa di diverso?

Il culto del dato (e i suoi sacerdoti)
Il culto del dato (e i suoi sacerdoti)
Ad alimentare questa deriva ci sono anche i nuovi intermediari: i marketer consulenti, spesso più attenti alla dashboard che al contesto. Il dato viene proposto come certezza assoluta, la creatività come rumore di fondo da ridurre.
Marco Carnevale, in uno dei pochi libri italiani che affronta il tema con spirito critico, La réclame dell’apocalisse, scrive:
“Tutti parlano di performance, nessuno più di personalità.”
Ecco il punto: l’ossessione per la misurabilità ha silenziato il valore dell’inaspettato. La pubblicità ha smesso di stupire per iniziare a rassicurare. Ma una comunicazione che non sfida, non emoziona.

Bernbach ce lo aveva già detto
Bernbach ce lo aveva già detto
C’è chi, già sessant’anni fa, aveva capito il rischio. Bill Bernbach, tra i padri della pubblicità moderna, sosteneva:
“Creativity is the last unfair advantage we’re legally allowed to take over our competitors.”
Per Bernbach, la pubblicità era un atto umano. Non bastava conoscere il target: bisognava entrare in relazione con lui. Credeva in un approccio culturale, psicologico, sensibile. In un tempo in cui tutto tende all’efficienza, è da lì che dovremmo ripartire.
Umanizzare l’algoritmo
Umanizzare l’algoritmo
Il problema non è il dato. Il problema è pensare che basti. I numeri possono orientare, ma non devono decidere da soli. Servono menti che sappiano ascoltare ciò che l’algoritmo non può capire: l’ironia, la contraddizione, l’intuizione. In una parola, l’umano.
Questo non è un appello nostalgico. È un’esortazione progettuale. Riprendere il controllo sul processo creativo significa restituire dignità alla comunicazione. Significa costruire brand che pensano, non solo che performano.
Il rischio non è solo perdere la creatività. È perdere il contatto con le persone. Perché nessuna metrica potrà mai misurare ciò che ci commuove davvero. E se il futuro della pubblicità sarà ancora capace di emozionare, lo sarà solo a patto di restare profondamente, ostinatamente, umana.
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